Un amico comune a molti dei dirigenti del Pd canturino mi ha
posto in questi giorni una domanda, a suo modo semplice, ma cruciale al
momento: “Ma che razza di partito è il PD?” Ho esitato a trovare una risposta,
ha avuto difficoltà a dare una definizione che fosse stringente. Ora l’ho
trovata, a pochi giorni di distanza: Il nostro è diventato il partito del
risentimento. Siamo diventati l’oggetto di scherno, di odio, di persecuzione,
il ventre molle e debole del sistema politico italiano, la palude et cetera. Ma
siamo oggi anche il contenitore di ogni risentimento della politica. Solo
questo sentimento ora ci anima, ci tiene svegli, ci alimenta. Non ci sto a
questa evidenza, dobbiamo superarla, dobbiamo trasformare questa nostra energia
negativa nel suo contrario.
Ecco il Pd deve essere altro, è altro. È le migliaia di
amministratori locali che si dedicano al governo dei comuni e delle regioni; i
volontari che lavorano alle feste; quanti hanno permesso lo svolgimento delle
primarie; i cittadini che si sono iscritti al partito; quelli che hanno votato
alle primarie. Non è di quei 101 parlamentari che hanno fatto fallire la nostra
proposta. E però quella proposta, l’elezione di Prodi, era già a rischio al
momento di nascere. Non possiamo ora fingere di nasconderci quanto ci dicemmo
lo scorso 11 marzo, nella nostra assemblea cittadina d’analisi del voto:
“… il nostro obiettivo è venuto meno, e di conseguenza
dobbiamo riconoscere che le elezioni
politiche si concludono con una sconfitta politica: possiamo desumerlo tanto
dalla sconfitta elettorale del centrosinistra in Lombardia, quanto dall’esito
difficile e incerto delle elezioni in ambito nazionale. Restituire il governo
regionale all’asse politico Lega Nord – PDL, sebbene le stesse elezioni
anticipate fossero state determinate da una rottura tra gli stessi partiti
politici, rappresenta per il centrosinistra l’ennesima occasione perduta.
Anche in ambito nazionale, le difficoltà emerse dal voto ci
consegnino un nuovo rischio per gli equilibri finanziari, istituzionali,
politici del Paese. Per di più, l’impossibilità di procedere a un assetto di
governo stabile ci conferma che il progetto politico intessuto in mesi di
lavoro, dal sostegno al governo Monti, alle elezioni primarie, alla formazione
della coalizione elettorale, ha subito una secca smentita, è stato sconfitto”.
Se posso fornire una personale testimonianza, voglio
confessare che nell’ottobre 2012 , quando fui eletto segretario, mi ero sentito
all’interno di un’esperienza di flusso positiva. Sono passati sette mesi,
eppure si tratta di un’altra epoca, entro la quale siamo riusciti a dissipare
una grande speranza di cambiamento, e anche quando la realtà ci ha ammoniti,
dicendoci la sconfitta, ci siamo accaniti in un orrido processo di autodissolvimento.
Ora, vi invito a ragionare insieme, perché questo è il cuore
di una solidarietà politica, di una comunità che si muove solidalmente,
nonostante il risentimento: ragionare. Guardiamoci in faccia, dobbiamo essere
sinceri. Dobbiamo capire chi crede ancora a questo progetto politico: a un
partito politico nel quale ci siano anche posizioni diverse, ma in cui le
identità si costruiscono nel confronto, non nell’esclusione. Non può avere
senso in questo partito dire: - se farete questo o quello io ne uscirò, se
vince Bersani io fuoriesco, se vince Renzi fondo un mio partito. Sarebbe la
fine del progetto del Partito democratico. Abbiamo bisogno di rispetto
reciproco per chi non la pensi allo stesso modo, non di adesione acritica; di
fiducia e non di fedeltà; di solidarietà interna al gruppo dirigente, non di una
lotta per bande, quale è emersa nei due giorni più folli degli ultimi venti anni di storia patria.
Penso che ci siamo macchiati di una responsabilità grande,
una volta compiuto un errore: aver insistito in quell’errore. E specifico i tre
passi falsi da noi compiuti, qui di seguito.
1. Non è l’esistenza
di posizioni divergenti, spesso conflittuali, che ci ha paralizzato (nella
storia d’Italia repubblicana, e anche prima, divisioni interne ai partiti ci
sono sempre state), ma l’aver svuotato di valore politico le sedi ufficiali
nelle quali statutariamente demandare le decisioni. Quando nella direzione
nazionale del Pd si ascolta la relazione del segretario e la si approva in
mezz’ora, si dice, si fa capire chiaramente che quella sede non decide nulla,
perché non conta, forse perché sono altri i luoghi di decisione (forse la
segreteria, o altro).
Questo non è né un male né un bene, è un fatto. È dal fatto
delle primarie, così congegnate, che tale processo deriva. Il vincitore può
dire (come ha detto Bersani): ho vinto, il popolo mi ha legittimato, e quindi
la direzione serve come sede di ratifica; oppure si può intendere quella delle
primarie come istanza di partecipazione, non solo di legittimazione, e
comportarsi di conseguenza. E ciò significa che non ci sono solo le primarie,
ma ci sono anche altre sedi di decisione politica, fatte di uomini e donne, e
che vanno ascoltate. Noi stessi, a Cantù, prima del congresso che mi elesse,
avevamo appunto approvato un regolamento di circolo che fissa regole e limiti
di ciascuno: proprio perché il partito è una comunità collegiale, non un corpo
militare di avanguardia. Se viene meno questo quadro di regole, diventa addirittura
inevitabile che succeda l’atto più incomprensibile della nostra storia : che il
19 aprile, alle 8,30, 496 deputati e senatori applaudano la candidatura di
Romano Prodi, e che lo stesso giorno alle 17,00 lo votino in soli 395. Può
bastare un applauso ad esaurire il dovere del controllo e della responsabilità?
2. Abbiamo compiuto un secondo gravissimo errore. E
continueremo a compierlo se oggi polarizzassimo il nostro dialogo nel dilemma
se fare no fare il governo con il PDL.
Ormai sarebbe un segno di ottusità e di non comprensione del momento storico,
della condizione di necessità in cui ci troviamo.
Torniamo al 17 aprile, la sera dell’accordo per eleggere
Marini Presidente della Repubblica. La rete impazzisce: si moltiplicano i
segnali di mobilitazione, anche degl iscritti del Pd. Cosa è successo? Che il
mondo era cambiato, e noi stessi avevamo contribuito a cambiarlo; ma abbiamo
agito in quella sera come se non ce ne fossimo accorti. Avevamo partecipato a
cambiare la nostra Costituzione materiale. Un esempio tra tutti. Abbiamo applaudito il Presidente Napolitano
qundo nel 2011 fece dimettere Berlusconi senza che ci fosse stato un voto di
fiducia in Parlamento. Feste e folla davanti al Quirinale, persino la banda…
Quella e altre azioni politiche di Napolitano hanno modificato nella sostanza,
se non nella forma, le prerogative del capo dello Stato. Da decenni si
distingue tra costituzione formale e materiale.
Tale distinzione si ripercuote anche in altre sfere della
vita pubblica, ad esempio nel rapporto tra politici e rete. “Ormai l’utilizzo
deli social network sulle decisioni politiche assomiglia sempre più a un
meccanismo pavloviano, pura istintualità, immediatezza, confusi con la
cosiddetta democrazia partecipata […] Ma un gruppo dirigente politico non può
abbandonare il terreno della mediazione e della razionalità, al di fuori del
quale la politica è finita” (sono parole di Gianfranco Giudice, che mi sento di
condividere pienamente).
Ecco, abbiamo contribuito in tutto questo alla definizione
di un nuovo profilo, presidenzialista, del capo di Stato italiano (ricordo che
nel modello presidenzialista, il popolo elegge direttamente il Presidente), e
però quando si tratta di eleggere Marini ci dimentichiamo di tutto ciò. E la
rete si scatena. A questo punto entrano in gioco non tanto i franchi tiratori,
ma i dissenzienti espliciti, palesi. Insomma, possibile che il nostro
segretario non si fosse immaginato d’innescare un meccanismo talmente micidiale
capace di far riemergere il rancore? Una follia appunto; ma non c’era genio in
questa follia.
3. Ora dobbiamo ricostruire (se ci saranno le condizioni) un
altro Pd. Pensare che a questo si debba passare attraverso regolamento di conti
sarebbe insistere nell’errore pertetuato sin ora. Chi pensa: dobbiamo pensarla
tutti allo stesso modo, ha sbagliato partito. Chi pensa: ora ci liberiamo di
questo o di quello, sbaglia allo stesso modo. Questo è il momento della
ragione, oggi più di altre occasioni. Semmai, bisogna ribadire quanto
dichiarammo l’11 marzo scorso, nel documento approvato dalla nostra assemblea:
vogliamo un congresso, il prima possibile. Ma dobbiamo farlo seriamente. Di
più. Dobbiamo scusarci con i nostri elettori, come partito. Non è questo che ci
chiesero con il voto, non ci hanno invitato a uccidere (politicamente) il
fondatore del partito. Per questo invito ad approvare il documento che vi
leggo, e pubblico di seguito, al fine di presentarlo alle istanze superiori del
Pd provinciale e nazionale.
Documento approvato
dalla riunione del direttivo del Pd di Cantù, aperto agli interventi degli
iscritti.
Cantù, 22 aprile 2013
Il Partito democratico
di Cantù ritiene che l’attuale difficoltà vissuta in Parlamento sia il
risultato di drammatici vuoti politici e culturali del nostro gruppo dirigente
allargato, tanto in ambito nazionale che regionale. La crisi del Partito
democratico, scaturita da evidenti divisioni nei nostri gruppi parlamentari, ha
posto in serio pericolo la tenuta istituzionale del Paese, e solo la recuperata
disponibilità del Presidente Giorgio Napolitano ha impedito che tale crisi
politica si trasferisse alla sfera delle istituzioni pubbliche. La rielezione
di Giorgio Napolitano rappresenta un elemento di garanzia e di salvezza per il
nostro Paese; di ciò pensiamo che il Paese intero debba essergliene grato.
Alla luce di quanto
accaduto occorre procedere a un profondo ripensamento
dei gruppi dirigenti, non dimostratisi all’altezza in questo frangente storico.
All’interno di un serio dibattito congressuale è fondamentale che emergano seri
obiettivi politici e programmatici, incardinati sulla cultura politica del
riformismo italiano, sull’Europa, sul valore delle responsabilità nazionali di
un partito come il nostro: in Italia come nella Regione Lombardia. Si deve
oltretutto cambiare la legge elettorale e ripensare profondamente l’intera
questione legata ai rimborsi elettorali, al finanziamento dell’attività
politica, al più generale tema dei costi dell’amministrazione pubblica.
L’attuale posizionamento del partito, pur valido in linea di principio (la
politica non può tornare a essere una faccenda dei soli ricchi) è risultato
come l’arroccamento di una casta politica e pertanto è stato punito dagli
elettori.
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