domenica 3 febbraio 2013

C'era una volta un eroe borghese

di Corrado Stajano (L’Unità, 08.07.2004)
Era la notte tra l’11 e il 12 luglio 1979: «Il signor Ambrosoli?» «Sì». «Mi scusi, signor Ambrosoli» e con una 357 Magnum l’uomo venuto dall’America, mandato da Michele Sindona, gli sparò tre colpi al petto. L’avvocato Giorgio Ambrosoli cadde nel sangue sul marciapiede della sua casa nel centro di Milano, a due passi dalla Basilica di San Vittore. Un quarto di secolo fa.
I figli dell’avvocato sono diventati grandi. Francesca, la maggiore, ha tre bambini; Filippo fa l’architetto e Umberto l’avvocato. Si è sposato anche lui, ha un bambino di 11 mesi, si chiama Giorgio, come il nonno. Annalori, moglie e madre di grande coraggio, continua a lavorare, ha tirato su i figli, ha tutelato la famiglia e la memoria con impeccabile riservatezza.
È contraddittoria la tragedia di Giorgio Ambrosoli vista all’interno della società italiana. Non si contano le strade, le piazze a lui dedicate, a Firenze, a Milano, a Roma, Varese, Alessandria, in grandi città e in piccoli centri, a Ghiffa, a Cornate d’Adda, Osimo, Scandicci, altrove. E poi le biblioteche, le scuole, le aule delle università. Non è stata dimenticata, quella morte. È rimasta come una spina dolorosa nella coscienza di molti la storia di un uomo che si fa uccidere in nome dell’onestà. Ma questo accade in un Paese dove la legalità non sembra un valore, dove le regole sono nemiche, dove un governo e una maggioranza parlamentare sono impegnate oggi per scardinare la Costituzione e hanno ingaggiato da anni una indecente battaglia contro la magistratura per salvare un presidente del Consiglio come Berlusconi che ha problemi di giustizia, si fa le leggi per sé ed è titolare di un gigantesco conflitto di interessi.
Il 23 maggio 1998, sul lungolago di Ghiffa, posto amato da Ambrosoli, l’allora ministro della giustizia (del governo Prodi) Giovanni Maria Flick chiese solennemente scusa a nome dello Stato alla famiglia della vittima. Quel governo non era di certo responsabile delle malefatte del passato, ma le parole del ministro risuonarono alte e liberatorie.
Ambrosoli scriveva ogni giorno sulle sue agende quanto gli capitava, chi vedeva, che cosa pensava, un diario minimo fatto di notazioni sommarie, nomi, appunti. Quel che lo turbava di più era il rendersi conto a ogni momento di avere nemici uomini di alto rango dello Stato - presidenti del Consiglio, ministri, generali, banchieri -, protagonisti di illegalità, trame, connivenze. Avrebbero dovuto essere naturalmente dalla sua parte di pubblico ufficiale con il compito di mettere ordine in una situazione degenerata, di corruzione protetta dal sistema politico di maggioranza e invece erano complici di Sindona e cercavano di intralciare con tutti i mezzi quel che lui stava facendo in nome della comunità. Al suo fianco si erano schierati in pochi, il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il responsabile della vigilanza Mario Sarcinelli e, tra i leader politici, Ugo La Malfa. Un uomo solo, Ambrosoli, con accanto il fedele maresciallo Silvio Novembre, contro un nemico potente: un intreccio formato da uomini di governo e della finanza internazionale, dalla City di Londra a Wall Street, alle banche svizzere, all’Istituto delle Opere di religione del Vaticano, ai servizi segreti italiani e americani, con la Loggia massonica P2 a fare da costante regista. Con la mafia e i poteri criminali che offrono la manovalanza.
Come mai, nel 1974, il governatore della Banca d’Italia Guido Carli sceglie Giorgio Ambrosoli come commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, la banca di Sindona, ormai indifendibile, con uno stato passivo ingente? È un professionista milanese né oscuro né famoso. Ha dato buone prove, è un uomo rigido, ma prudente, non ha legami politici, è di opinioni moderate - monarchico -, è un onesto professionista che ha appena compiuto quarant’anni. Si pensa probabilmente che sia più influenzabile di quanto poi mostrerà di essere, conciliante, controllabile in una situazione così delicata, di pericolosità addirittura dirompente nei rapporti tra governo e banca centrale, tra Stato italiano e Vaticano, tra i partiti della maggioranza politica e il potente clan Sindona che ha in Giulio Andreotti il suo faro protettore.
E invece Ambrosoli si rivela un osso durissimo, non guarda in faccia nessuno, si impegna con grande passione. Le pressioni che subisce per accomodare, aggiustare, accettare il salvataggio della banca Sindona sono infinite. Risulta dalle intercettazioni telefoniche quanto Sindona, in un primo tempo, sottovaluti Ambrosoli. È sardonico, irridente, consapevole della forza delle sue protezioni.
Ambrosoli è intelligente, sa ricostruire con pazienza il verminaio sindoniano, capisce in quale modo funzionano i depositi fiduciari, la chiave di volta del «salvatore della lira», scopre le azioni della Fasco, deposito intestato alla Banca Privata Italiana. Va a Ginevra, non perde tempo, fa decadere i vecchi amministratori. Sindona s’infuria. comprende allora come aveva sbagliato a giudicare Ambrosoli. S’infuria ancora di più quando Ambrosoli fornisce agli americani preziose informazioni sulla Franklin National Balk in stato fallimentare, di proprietà sindoniana.
Alla fine del 1978 la sorte di Ambrosoli è segnata. L’avvocato è consapevole e indifeso tra minacce, telefonate di morte, inquietanti segni della cappa mafiosa che pesa su di lui.
Ambrosoli non rinuncia a battersi. In quell’ultima stagione della vita usa tutto il suo naturale coraggio. Sente di agire in nome di un’altra Italia, morale, civile, rispettosa della legge. Conserva l’illusione che quel che sta facendo possa servire a cambiare i comportamenti di una classe dirigente corrotta.
È stato definito «un eroe borghese», un ossimoro, l’accostamento di concetti contrapposti. Quel che turba di più, in questa fosca storia è che si possa e si debba definire eroe una persona che fa assolutamente ciò che deve in nome della legge e della Costituzione.
Resta un pensiero che inquieta. per salvarsi, a Giorgio Ambrosoli sarebbe bastato poco. Piccoli gesti neppure visibili all’esterno che avrebbero potuto apparire come atti dovuti. Ambrosoli sapeva bene che ne avrebbe ricavato enormi benefici. Erano assai potenti, infatti, coloro che gli chiedevano quei piccoli gesti, una firma, un benestare (Un aggiustamento di rotta pagato ancora una volta dagli italiani onesti). Non c’era bisogno, per salvare la vita, di clamorosi tradimenti. Sarebbe bastato un minuscolo sì. Ma Giorgio Ambrosoli, per restare in pace con la propria coscienza, disse sempre e soltanto no.


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