Johnny Dotti ha dato la sveglia alla politica canturina sul
tema del welfare comunitario. E noi abbiamo compreso che in un non lontano
futuro ogni cosa dovrà cambiare, se non vorremo perdere la nostra tenuta
sociale.
Venerdì 19, presso la sede del Partito democratico cittadino,
il sociologo bergamasco, autore del saggio Buono e giusto, Sassella editore, ha dialogato con
Paolo Ferrario, altro sociologo, d’impostazione più istituzionale, docente all’università
Ca’ Foscari di Venezia e con iscritti e simpatizzanti venuti ad ascoltarlo. Tra
loro anche gli assessori ai servizi sociali Laura Longoni (di Cucciago) e Francesco
Pavesi (di Cantù).
Immediato è stato il punto d’attacco di Dotti: il piano di
zona del canturino, egli ha sostenuto, è un perfetto esempio di come di
procedeva negli anni 70 del secolo scorso. Un esempio di inerzia istituzionale,
tutto incentrato sul modello della indicizzazione, e poco sulla valutazione dei
processi (“è incentrato su parole, quando dovrebbe essere costruito su verbi”).
Ma soprattutto, esso non comprende il vero punto di crisi della nostra società.
Che è tutto demografico. Per la prima volta, ha affermato
Dotti, accade in Occidente quanto non accadeva da seimila anni: la classe degli
over 65 anni supererà a breve quella degli under 25 ani. E quando ciò accadrà,
sarà un disastro per la sostenibilità sociale.
In tale contesto, è proprio
la logica della erogazione dei servizi ad essere sbagliata. Il format
dei servizi ipotizzati dal sistema assistenziale canturino sono stati
predisposti e modellati quaranta anni fa. E da allora, l’inerzia istituzionale
li ha perpetuati.
Come si esce da tale inerzialità? Facendo emergere, a detta
del sociologo Dotti, il circuito dell’informalità, che è sicuramente più ricco
e più strutturato di quello istituzionale: una stima tra welfare territoriale
comunale e quello familiare dovrebbe vedere un rapporto di 1 a 10! Ma per far ciò occorre ridefinire la
stessa governance del modello del welfare comunitario, tutta orientata sulla
cultura dello specialismo, quando questo specialismo è crollato definitivamente
con la crisi del 2007: si pensi alla sharing economy che lo abbandona definitivamente.
Un altro motivo di crisi di questo modello, è legato all’idea
di diritti che è sottesa ad esso, ormai superata. Negli ultimi decenni
siamo passati dal concepirli come diritti collettivi, a viverli come diritti
individuali. In un tale mutato contesto, il welfare non può più funzionare. Se ogni bisogno si promuove in diritto
individuale insindacabile, l’impianto stesso del welfare si trasforma in una
sorta di repertorio di offerte, alle quali ciascuno si avvicina sulla base di
una cultura consumistica e individualistica.
Di contro a questa deriva, la proposta di fondo emersa nel
colloquio con Johnny Dotti è quella di partire dalla domanda, da una sua
mutualizzazione. Ed è l’unica alternativa alla trasformazione e alla
privatizzazione del welfare, abbandonato altrimenti nelle mani di assicurazioni
private e finanziarie.
Occorre quindi creatività e inventiva, per salvaguardare la
natura democratica del welfare. E questo deve servire per il sociale, come per
la componente sanitaria, ridotta a vero business dalla scelta lombarda di
esasperare i l modello del servizio reso
su presentazione di un voucher.
Serve quindi visione, apertura mentale e determinazione per
puntare anzitutto alla costruzione di un capitale sociale, facendo per il
welfare quanto accadde a fine ‘800 con la nascita delle mutue e delle banche
cooperative. E serve soprattutto radicalità, mirata a un’azione trasformativa,
capace di evitare le due minacce per il welfare del domani: burocratismo e
funzionalismo.
All’ente pubblico, il compito di essere “primus inter pares”,
ovvero una istituzione capace di rigenerare autorità, ma che rinunci a ogni
pretesa dirigistica.
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