venerdì 22 marzo 2013

Domenica sempre aperto? La nostra posizione


Ieri sera, giovedì 21 marzo, presso il Salone dei Convegni, la Confesercenti ha organizzato un confronto pubblico sulle aperture domenicali degli esercizi commerciali. Iniziativa meritoria, che mira a rimettere in discussione gli effetti del decreto privatizzazioni del recente governo Monti, che ha di fatto lasciato mano libera in materia di orari e calendario degli esercizi commerciali. Chiamarla liberalizzazione, però, come ha fatto notare il Sindaco di Cantù, Claudio Bizzozero, in un bell’intervento, è fuorviante: sarebbe più corretto definirla deregolamentazione.

Ora, tale deregolamentazione sta mettendo  in grandi difficoltà i piccoli esercizi commerciali, che rischiano la chiusura, senza tuttavia garantire condizioni favorevoli agli utenti, e lasciando condizioni di oligopolio ai grandi centri commerciali, che si costruiscono il proprio mercato come meglio preferiscono.

La platea, composta da molti commercianti cittadini, ha così ascoltato il “racconto” di una marginalizzazione produttiva, di un impoverimento della categoria, persino di una riduzione della dignità umana degli addetti al commercio, siano essi padroni o dipendenti dell’esercizio commerciale.

E in tale racconto drammatico, è parso di leggere i toni con i quali Italo Calvino, nel 1963, raccontava l’alienazione e la spersonalizzazione che l’operaio Marcovaldo subiva ad opera di un sistema produttivo disumanizzante. Purtroppo, i tanti laudatores del capitalismo liberista preferirono allora, cinquant’anni fa, celebrare le magnifiche sorti e progressive del modello consumistico; molti di essi oggi lamentano le medesime ingiustizie che altri subirono decenni or sono.

E abbiamo così, ieri sera, sentito addirittura un’inattesa accusa contro la logica consumistica, colpevole della subordinazione dell’uomo e della sua dimensione esistenziale al meccanismo della logica del profitto.

A una tale prospettiva, il Partito democratico che mi trovo a rappresentare in questa città, non può che aggregarsi, con entusiasmo e convinzione.

E tuttavia, ci sono alcune riserve, emerse nel dibattito, e che sono state promosse dall’intervento della consigliera regionale maroniana Daniela Maroni, che ha improvvidamente chiamato in causa le liberalizzazioni di Pierluigi Bersani come responsabili di tale deriva (prontamente rintuzzata dal consigliere regionale Pd, Luca Gaffuri).

Vi è infatti una ambiguità, che è lessicale, ma prima ancora politica e culturale. E a tale opacità concettuale è facile agganciarsi, per stirare la giusta istanza della Confesercenti (tenere chiusi i negozi alla domenica) ai propri interessi di parte.

Se una critica al consumismo e alla deregolamentazione che è insita nel decreto Monti si limitasse a tale obiettivo, non avremmo alcun problema a condividerla. Ma tale critica può anche essere associata a due diverse torsioni, l’una ideologica e l’altra corporativa, che la renderebbero irricevibile.

La prima. Sostenere che il rispetto dell’umanità sia centrale, non può diventare il varco tramite il quale celebrare il primato del premoderno (sostanzialmente genuino) contro un moderno inquietante e meccanizzato. Tornare ai modelli di produzione, ai livelli di controllo qualitativo, ai rapporti di produzione, persino, dell’Italia premoderna, tornare al quanto era bello quando non c’era la globalizzazione e così via, non ci porterebbe da nessuna parte. La globalizzazione è una sfida che tutti, nessuno escluso, dobbiamo accettare. Rendersi no global, di fronte al rischio del mondo, si traduce in un arrendersi al mondo.

La seconda torsione riguarda l’idea di confondere la liberalizzazione con la deregolamentazione. Chi non ha intenzione di innovare il nostro sistema produttivo si compiace di tale confusione. Si dice no alla liberalizzazione perché, non solo si è contro la spersonalizzazione che proviene dal turbocapitalismo che favorisce il grande, l’ipermercato, il monopolio multinazionale (docet Sindaco Bizzozero), ma anche perché si è contro le liberalizzazioni vere: quelle che dovrebbero togliere resistenze corporative nel sistema italiano, quelle secondo cui vi sono categorie intoccabili: notariato, ordini professionali di ogni tipo, distribuzione di ogni qualità. Vincere tali monopoli non significa deregolamentare il mercato, semmai significa disinnescare posizioni di privilegio di pochi produttori o distributori, e significherebbe anche aprire il mercato a nuove immissioni, nuova offerta, e quindi nuovi posti di lavoro.

A tale visione di resistenza, il Pd non potrebbe associarsi, proprio  perché partito con una responsabilità nazionale, che mira a una reale innovazione del sistema produttivo.

A conferma di tale visione, mi piace segnalare di seguito il resoconto giornalistico di oggi, venerdì 22 marzo, ad opera della redazione di Repubblica, che tratta del rapporto che Confcommercio traccia di un quadro allarmante per la dinamica del Pil (stime tagliate a -1,7% per il 2013) e dei consumi (quest'anno previsto -2,4%), secondo il quale gli italiani lavorano tanto, ma producono poco…

Da Repubblica 22 marzo 2013
“Imprese, l'allarme di Sangalli. Il netto peggioramento delle previsioni economiche lascia "stimare una perdita netta di altre 90mila imprese del terziario di mercato nel complesso del biennio 2013-2014". Questo l'allarme del numero uno di Confcommercio, Carlo Sangalli, che nel suo intervento a Cernobbio ha correlato i dati economici e quelli sulla povertà, sottolineando come la crisi produttiva sia diventata crisi sociale: "E' come se l'orologio produttivo della nostra economia avesse riportato indietro le lancette di quasi tredici anni". Sul provvedimento annunciato ieri dal governo, che sbloccherà 40 miliardi in due anni per le imprese creditrici della Pa, Sangalli ha chiesto "tempestività, e il provvedimento del consiglio dei ministri di ieri non va in questa logica". Sulla situazione politica il giudizio è netto: "Il ritorno alle urne sarebbe drammatico".

Gli italiani lavorano tanto. Confcommercio sfata infine il "falso" mito degli italiani come popolo di fannulloni. Le analisi parlano chiaro: sia nel caso dei lavoratori dipendenti sia in quello di professionisti e autonomi, nel 2011 hanno lavorato in media 1.774 ore ciascuno. Vale a dire il 20% in più dei francesi e il 26% in più dei tedeschi. I lavoratori indipendenti, autonomi o professionisti, in Italia lavorano quasi il 50% in più del lavoratore dipendente: in cifre, 2.338 ore contro 1.604. E' come dire tre mesi in più, compresi sabati e domeniche. Ma è bene precisare che lo stesso fenomeno si verifica anche negli altri Paesi presi in considerazione dalla ricerca di Confcommercio.

Ma producono poco
. Il problema tutto italiano è quello della produttività. In media, ogni lavoratore italiano produce una ricchezza mediamente pari a 36 euro per ogni ora lavorata.  Rispetto a noi, i tedeschi producono il 25% in più e i francesi quasi il 40% in più. E mentre negli altri Paesi la produttività oraria è cresciuta nel tempo (tra il 2007 e il 2011, del 20% in Germania, in Francia anche di più, in Spagna dell'11% circa) in Italia questo fenomeno si è verificato in modo molto marginale (solo il 4% rispetto al 2007). D'altra parte, solo pochi giorni fa era stato Mario Draghi a puntare il problema chiedendo una riforma dei contratti di lavoro”.

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