Ieri sera, giovedì
21 marzo, presso il Salone dei Convegni, la Confesercenti ha organizzato un
confronto pubblico sulle aperture domenicali degli esercizi commerciali. Iniziativa
meritoria, che mira a rimettere in discussione gli effetti del decreto
privatizzazioni del recente governo Monti, che ha di fatto lasciato mano libera
in materia di orari e calendario degli esercizi commerciali. Chiamarla
liberalizzazione, però, come ha fatto notare il Sindaco di Cantù, Claudio
Bizzozero, in un bell’intervento, è fuorviante: sarebbe più corretto definirla
deregolamentazione.
Ora, tale
deregolamentazione sta mettendo in
grandi difficoltà i piccoli esercizi commerciali, che rischiano la chiusura,
senza tuttavia garantire condizioni favorevoli agli utenti, e lasciando
condizioni di oligopolio ai grandi centri commerciali, che si costruiscono il
proprio mercato come meglio preferiscono.
La platea, composta
da molti commercianti cittadini, ha così ascoltato il “racconto” di una
marginalizzazione produttiva, di un impoverimento della categoria, persino di
una riduzione della dignità umana degli addetti al commercio, siano essi
padroni o dipendenti dell’esercizio commerciale.
E in tale racconto
drammatico, è parso di leggere i toni con i quali Italo Calvino, nel 1963,
raccontava l’alienazione e la spersonalizzazione che l’operaio Marcovaldo
subiva ad opera di un sistema produttivo disumanizzante. Purtroppo, i tanti
laudatores del capitalismo liberista preferirono allora, cinquant’anni fa,
celebrare le magnifiche sorti e progressive del modello consumistico; molti di
essi oggi lamentano le medesime ingiustizie che altri subirono decenni or sono.
E abbiamo così,
ieri sera, sentito addirittura un’inattesa accusa contro la logica consumistica,
colpevole della subordinazione dell’uomo e della sua dimensione esistenziale al
meccanismo della logica del profitto.
A una tale
prospettiva, il Partito democratico che mi trovo a rappresentare in questa
città, non può che aggregarsi, con entusiasmo e convinzione.
E tuttavia, ci sono
alcune riserve, emerse nel dibattito, e che sono state promosse dall’intervento
della consigliera regionale maroniana Daniela Maroni, che ha improvvidamente
chiamato in causa le liberalizzazioni di Pierluigi Bersani come responsabili
di tale deriva (prontamente rintuzzata dal consigliere regionale Pd, Luca
Gaffuri).
Vi è infatti una
ambiguità, che è lessicale, ma prima ancora politica e culturale. E a tale opacità
concettuale è facile agganciarsi, per stirare la giusta istanza della
Confesercenti (tenere chiusi i negozi alla domenica) ai propri interessi di
parte.
Se una critica al
consumismo e alla deregolamentazione che è insita nel decreto Monti si
limitasse a tale obiettivo, non avremmo alcun problema a condividerla. Ma tale
critica può anche essere associata a due diverse torsioni, l’una ideologica e l’altra
corporativa, che la renderebbero irricevibile.
La prima. Sostenere
che il rispetto dell’umanità sia centrale, non può diventare il varco tramite
il quale celebrare il primato del premoderno (sostanzialmente genuino) contro
un moderno inquietante e meccanizzato. Tornare ai modelli di produzione, ai livelli di
controllo qualitativo, ai rapporti di produzione, persino, dell’Italia
premoderna, tornare al quanto era bello quando non c’era la globalizzazione e
così via, non ci porterebbe da nessuna parte. La globalizzazione è una sfida
che tutti, nessuno escluso, dobbiamo accettare. Rendersi no global, di fronte al rischio del mondo, si traduce in un
arrendersi al mondo.
La seconda
torsione riguarda l’idea di confondere la liberalizzazione con la
deregolamentazione. Chi non ha intenzione di innovare il nostro sistema
produttivo si compiace di tale confusione. Si dice no alla liberalizzazione
perché, non solo si è contro la spersonalizzazione che proviene dal
turbocapitalismo che favorisce il grande, l’ipermercato, il monopolio
multinazionale (docet Sindaco Bizzozero), ma anche perché si è contro le
liberalizzazioni vere: quelle che dovrebbero togliere resistenze corporative
nel sistema italiano, quelle secondo cui vi sono categorie intoccabili: notariato,
ordini professionali di ogni tipo, distribuzione di ogni qualità. Vincere tali
monopoli non significa deregolamentare il mercato, semmai significa
disinnescare posizioni di privilegio di pochi produttori o distributori, e significherebbe
anche aprire il mercato a nuove immissioni, nuova offerta, e quindi nuovi posti
di lavoro.
A tale visione di
resistenza, il Pd non potrebbe associarsi, proprio perché partito con una responsabilità
nazionale, che mira a una reale innovazione del sistema produttivo.
A conferma di tale
visione, mi piace segnalare di seguito il resoconto giornalistico di oggi,
venerdì 22 marzo, ad opera della redazione di Repubblica, che tratta del rapporto che Confcommercio traccia di un quadro allarmante
per la dinamica del Pil (stime tagliate a -1,7% per il 2013) e dei consumi
(quest'anno previsto -2,4%), secondo il quale gli italiani lavorano tanto, ma
producono poco…
Da
Repubblica 22 marzo 2013
“Imprese, l'allarme di Sangalli. Il netto peggioramento delle previsioni
economiche lascia "stimare una perdita
netta di altre 90mila imprese del terziario di mercato nel
complesso del biennio 2013-2014". Questo l'allarme del numero uno di
Confcommercio, Carlo Sangalli, che nel suo intervento a Cernobbio ha correlato
i dati economici e quelli sulla povertà, sottolineando come la crisi produttiva
sia diventata crisi sociale: "E' come se l'orologio produttivo della
nostra economia avesse riportato indietro le lancette di quasi tredici
anni". Sul provvedimento annunciato ieri dal governo, che sbloccherà 40
miliardi in due anni per le imprese creditrici della Pa, Sangalli ha chiesto
"tempestività, e il provvedimento del consiglio dei ministri di ieri non
va in questa logica". Sulla situazione politica il giudizio è netto: "Il
ritorno alle urne sarebbe drammatico".Gli italiani lavorano tanto. Confcommercio sfata infine il "falso" mito degli italiani come popolo di fannulloni. Le analisi parlano chiaro: sia nel caso dei lavoratori dipendenti sia in quello di professionisti e autonomi, nel 2011 hanno lavorato in media 1.774 ore ciascuno. Vale a dire il 20% in più dei francesi e il 26% in più dei tedeschi. I lavoratori indipendenti, autonomi o professionisti, in Italia lavorano quasi il 50% in più del lavoratore dipendente: in cifre, 2.338 ore contro 1.604. E' come dire tre mesi in più, compresi sabati e domeniche. Ma è bene precisare che lo stesso fenomeno si verifica anche negli altri Paesi presi in considerazione dalla ricerca di Confcommercio.
Ma producono poco. Il problema tutto italiano è quello della produttività. In media, ogni lavoratore italiano produce una ricchezza mediamente pari a 36 euro per ogni ora lavorata. Rispetto a noi, i tedeschi producono il 25% in più e i francesi quasi il 40% in più. E mentre negli altri Paesi la produttività oraria è cresciuta nel tempo (tra il 2007 e il 2011, del 20% in Germania, in Francia anche di più, in Spagna dell'11% circa) in Italia questo fenomeno si è verificato in modo molto marginale (solo il 4% rispetto al 2007). D'altra parte, solo pochi giorni fa era stato Mario Draghi a puntare il problema chiedendo una riforma dei contratti di lavoro”.
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